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e alla promozione del Portofranco, un tenace spirito di laica apertura
riuscì a mantenere salde radici in questo piccolo centro costiero.
Un certo qual sentore di questo antico modello di civico rispetto sem-
brò aleggiare ancora nell’ultimo dopoguerra. Dopo i tragici eventi e la
dolorosa frattura confinaria, l’eredità psicologica lasciata da decenni di
esaltazione nazionale e di opposte passioni si era coniugata con l’ama-
rezza generata da nuovi lutti e da nuove reciproche esclusioni. Ancora
una volta però una piccola luce sembrò aleggiare proprio nel duomo,
una speranza di sopravvivenza dell’antico spirito refrattario a separa-
tezze ed esclusioni. Il capitolo infatti trovò il coraggio di fronteggiare il
suo vescovo, Antonio Santin, un uomo di notevole personalità, tentan-
do con forza, anche se vanamente, di indicare come parroco di S. Giusto
un sacerdote di loro fiducia, ma dal cognome inconfondibilmente slavo.
Sulla ripida discesa che dal piazzale porta al retro dell’antico monaste-
ro della Benedettine, ora dismesso, a metà delle breve via, sorge un
edificio che, già ospedale e poi sede di distretto militare, in antico era il
palazzo vescovile. Per lunghi anni fu la dimora di una particolare figura
di vescovo: il già ricordato Pietro Bonomo. Appartenente ad un’impor-
tante famiglia locale, esperto diplomatico della corte imperiale, colto
umanista, ritiratosi in diocesi, seppe rispettare la sua città e, con spi-
rito erasmiano, credette piuttosto alla forza dell’amorevole e paziente
persuasione, rifiutando ogni violenza. Accettò diversità e resistenze in
nome di un mondo più tollerante e inclusivo. Visse circondato dal ri-
spetto di tutti, in una comunità che difficilmente accettava il controllo
episcopale. Di lui il ricordo rimase scolpito sull’architrave d’ingresso del
palazzetto vescovile, ma ancor più nella memoria cittadina.
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