IL CIVICO MUSEO DEL RISORGIMENTO E IL SACRARIO OBERDAN

di Fabio Todero

Il nucleo originario del Civico Museo del Risorgimento è costituito dalle raccolte che il patriota e letterato Filippo Zamboni (Trieste, 1826-Vienna, 1910), già volontario del 1848, donò al Comune di Trieste. Ne nacque, nel 1910, un primo Museo cittadino di Storia Patria collocato in Villa Basevi le cui sale, allestite alla meglio nel 1911, venivano aperte occasionalmente alle visite di scolaresche, nel quadro di una formazione in chiave italiana delle giovani generazioni. Dopo la chiusura dell’istituto durante il periodo bellico, esso fu solennemente riaperto nella sua vecchia sede l’11 aprile 1922, in occasione dello svolgimento a Trieste del X Congresso della Società nazionale per la storia del risorgimento, con la nuova denominazione Museo di Storia Patria e del Risorgimento; la consegna ufficiale del sito al primo cittadino di Trieste avvenne il 20 dicembre 1925, quando si celebrava il 43° anniversario del sacrificio di Guglielmo Oberdan. Una volta realizzata la Casa del Combattente, opera dell’architetto triestino Umberto Nordio, sorta in quello che avrebbe dovuto essere il cuore della Trieste fascista, le collezioni del Museo di Storia Patria venivano destinate ad un’altra sede ed il Museo del Risorgimento iniziò la sua vita autonoma il 29 aprile 1934 sotto la direzione di Piero Sticotti. Intanto, le numerose donazioni provenienti dalla famiglie dei volontari irredenti andavano arricchendo l’esposizione. La sala principale del Museo infatti, una volta soffermatisi sui cimeli di Guglielmo Oberdan e visitati gli spazi dedicati al 1848 triestino e ai garibaldini giuliani delle campagne risorgimentali e balcaniche, caratterizzate tra l’altro come le altre dalla presenza di alcune pregevoli opere pittoriche, è consacrata alla memoria del volontariato della Grande guerra. Analogamente a quanto andava accadendo nelle omologhe istituzioni museali italiane, il termine ad quem del Risorgimento era infatti prolungato alla fine della Grande guerra, il conflitto che aveva portato a compimento il processo di unificazione nazionale.
Il salone dei volontari è dominato dai grandi affreschi di Carlo Sbisà (1899-1964) che raffigurano figure di soldati delle diverse armi, e più piccole figure femminili rappresentanti le città redente e l’irredenta Zara. Al centro e lungo le pareti, in vetrine realizzate dallo stesso architetto Nordio, cimeli, ricordi, ordigni bellici, buffetterie e uniformi ricordano alcuni dei personaggi che avevano animato il movimento dei volontari giuliano-dalmati: tra gli altri, vi fanno spicco i nomi di Ruggero Timeus e di Scipio Slataper, tra i protagonisti della vita culturale e politica del primo Novecento. Come già nelle sale dedicate all’esperienza garibaldina, gli oggetti e le immagini dei personaggi che vi sono ricordati si ponevano come altrettante immaginette sacre e reliquie del culto laico della patria, già alimentato dall’irredentismo e successivamente esaltato dal fascismo che della Prima guerra mondiale aveva fatto il perno della propria mitologia. Superata la sala dei volontari, si raggiunge quella dedicata alle medaglie d’oro; vi sono ricordati quanti tra essi furono decorati con la massima onorificenza militare: Ugo Polonio, uno dei più giovani tra i volontari, Carlo e Giani Stuparich, promessa l’uno e protagonista il secondo della vita culturale italiana, Giacomo Venezian, Spiro Xydias, Guido Brunner, Ugo Pizzarello, Fabio Filzi e Nazario Sauro – entrambi catturati e giustiziati dagli austriaci –, Guido Corsi, Guido Slataper fratello di Scipio, Francesco Rismondo. L’ultima sala, caratterizzata tra l’altro da un grande bronzo che ritrae il re Vittorio Emanuele III – vi è collocata anche la bandiera del cacciatorpediniere «Audace», che primo toccò il Molo San Carlo oggi appunto Molo Audace – celebra la fine del conflitto e l’arrivo via mare delle truppe italiane. Vi sono infine brevemente ricordati gli avvenimenti che condussero al ritorno della città all’amministrazione italiana (1954). Alcuni ritocchi, apportati nel 2012, hanno reso più accattivante la visita alle sale del Museo.


Celebrata nelle sale del Museo con due bacheche che ne conservano cimeli e ricordi, la memoria di Guglielmo Oberdan – giovane irredentista che aveva progettato un attentato alla coppia imperiale e per questo fu condannato al capestro – è al centro del Sacrario. La struttura, realizzata tra il 1931 e il 1935, sorge all’esterno della Casa del combattente, nel luogo in cui egli fu giustiziato il 20 dicembre 1882. Il sito custodisce infatti l’anticella e la cella – decorate all’esterno dai simboli delle città italiane che concorsero alla realizzazione dell’opera – nelle quali il giovane irredentista triestino fu rinchiuso dopo la traduzione dal Carcere dei Gesuiti fino al giorno dell’esecuzione; sono i soli resti di quella che era stata la Caserma grande della città di Trieste, abbattuta dal fascismo per fare spazio alla piazza dedicata a Oberdan, nel quadro di un più complesso quadro di risistemazione dell’area urbana che aveva condotto, tra l’altro, alla demolizione di una gran parte del ghetto ebraico.
Lo spazio del Sacrario è dominato dalla statua bronzea del Martire, opera di Attilio Selva (1888-1970), che venne qui collocata dopo interminabili polemiche; la possente figura di nudo che lo ritrae è attorniata da due immagini femminili che rappresentano la Patria e la Libertà. Una lapide riporta il testo della lettera indirizzata da Oberdan «Ai fratelli italiani»; sulle altre pareti, altre grandi lapidi con i nomi dei volontari giuliano-dalmati delle guerre del Risorgimento, il bollettino della Vittoria di Diaz e quello di Thaon di Ravel, ma anche opere che, denunciando il periodo della realizzazione del Sacrario, ricordano i caduti per la rivoluzione fascista, della Guerra di Spagna e in Africa orientale. Per successivo intervento, a denunciare la complessità del sito, vi sono ricordati anche i caduti della Resistenza.